lunedì 4 luglio 2011

Ciò che ho imparato (credo)

Ecco qualcosa che ho imparato - o credo di aver imparato - dallo scrivere per l'infanzia.

L'errore che si fa spesso in questo campo e di cui si è già tanto discusso, è quello di considerare i bambini dei poveri scemi che non sono in grado di capire delle storie un po' più complesse di "Pierino fa la cacca, scivola sulla propria cacca, cade nella cacca, si sporca la faccia di cacca. Ah ah che ridere."

La mia percezione invece è che i bambini abbiano semplicemente un altro modo di comprendere le cose, se vogliamo più elementare, ma di cui bisogna tenere conto.

Gli adulti hanno - in teoria - gli strumenti per comprendere storie con un livello di complessità logica più avanzato. Strumenti che i bambini, per questioni di "esperienza della vita", ancora non hanno.

Essi hanno però un enorme e innato bagaglio emotivo già forte, che è il vero strumento che hanno a disposizione per comprendere ciò che viene loro raccontato. Ecco perché quando si scrive per l'infanzia è meglio puntare sulle emozioni.

Non è che i bambini non capiscano, è che non capiscono quando il ragionamento non è accompagnato da un portato emotivo in grado di "tradurre" la vicenda nel loro "linguaggio".

Per questo quand'ero piccolo non amavo i gialli... mentre me ne sono appassionato da adulto. Ed è per lo stesso motivo che se scrivo storie poliziesche indirizzate ANCHE all'infanzia, cerco di mantenere il focus sulle emozioni dei protagonisti, le motivazioni intime di chi ha commesso un crimine, le implicazioni per chi lo ha subito, eccetera. Se il bambino non comprenderà tutti i passaggi del poliziesco, c'è il sostrato emotivo che sorregge la storia e che permette anche ai più piccoli di goderne.

A differenza degli adulti, i bambini non hanno la pretesa di capire TUTTO ciò che vedono-leggono.

Fornire loro un prodotto perfettamente "digerito", con gli elementi per comprendere ogni singola virgola, è un'operazione sterile. Il bambino per definizione ha bisogno anche di qualcosa difficile da comprendere. Qualcosa per cui deve sforzarsi, far lavorare il cervello. Non si impara niente senza un minimo di sforzo. Ovviamente non si può proporre loro storie in cui dovranno sforzarsi dall'inizio alla fine, ma un minimo sforzo di concentrazione non solo è possibile, ma auspicabile. Troppo spesso oggi i ragazzi si aspettano che tutto sia già pronto e facile, che non debbano fare nessuno sforzo, invece bisogna educarli a impegnarsi, a capire quanto ci si arricchisce nella fatica, quanta soddisfazione si trae dalla "conquista" di una nuova conoscenza. Non è un discorso da "sceneggiatore pigro", è proprio con questo sistema che io stesso ho imparato tante cose da piccolo, anche solo passando giorni interi sopra Topolino quando ancora non sapevo leggere.

E ci vuole più fatica a "selezionare" le informazioni adatte ai più piccoli, nuove ma non irrangiungibili, piuttosto che fornire loro qualcosa di pre-digerito.

La componente emotiva, quindi. Se sapere come gli adulti fruiscono le storie è solo relativamente utile per saper scrivere per l'infanzia, al contrario sapere come "funziona" la fruizione dei bambini è utile anche scrivendo per gli adulti. Perché quella componente emotiva che ci caratterizza da piccoli non è mai del tutto sopita. E' quindi utile saper utilizzare (senza strafare) questo ingrediente "emotivo" anche quando si indirizza le proprie storie ai più grandi.

E' il classico esempio dei "più livelli di lettura", utile per quando si scrive "per tutti", o "per le famiglie": da una parte una complessità logica in grado di accattivare anche gli adulti, dall'altro una ricchezza emotiva che sappia rivolgersi anche ai bambini.

E' ovvio che, se non bisogna fornire prodotti pre-digeriti ai bambini, da un altro punto di vista non bisogna pretendere che capiscano tutto del mondo degli adulti e si comportino come noi, e questo riguarda non solo le storie, ma un po' tutto ciò che viene presentato ai piccoli.

Si dice spesso (ed è vero, penso) che i ragazzi oggi sono più svegli di come eravamo noi. Capiscono in fretta, si comportano da adulti, sono dei maghi con la tecnologia. Insomma, dei cervelloni.

Eppure - e qui parte la filippica socio-culturale - questo non combacia con la maturazione di una persona. Essere più "svegli", saper fare ragionamenti complessi, è solo una parte della crescita di una persona. Spesso mi capita di notare ragazzi molto svegli sul piano razionale, ma totalmente fragili dal punto di vista emotivo. Quando si tratta della teoria, di qualsiasi campo si parli, sanno tutto. Ma quando si passa alla pratica, non sono capaci di gestire la minima frustrazione e crollano alla prima difficoltà. Pretendono che sia il mondo a venire loro incontro, come se fosse loro dovuto, e quando scoprono che è l'esatto contrario, che il mondo ti passa sopra con lo schiacciasassi e non torna indietro neanche per vedere come stai, allora diventa una tragedia.

Parlo solo di una parte dei ragazzi, ovviamente non parlo per tutti. Però è una tendenza forte che ho notato negli ultimi anni.

E noi che scriviamo storie per loro abbiamo la nostra responsabilità.

4 commenti:

simone arena ha detto...

Complimenti per la riflessione!
Tra l'altro ,ad esempio,chi non è appasionato di fumetti,associa quest'ultimi,cose per bambini,screditando allo stesso tempo entrambi...
Quindi chi li scrive e li interpreta disegnandoli,al di la del lavoro ha anche la "missione"di cambiare questo pregiudizio...a parer mio.
Complimenti per il blog

Simone

Giorgio Salati ha detto...

Ciao Simone, grazie per i complimenti e per il tuo commento!

Manu ha detto...

grazie Giorgio!!! questa tua riflessione mi è stata utilissima!!!!!!! :))))

Giorgio Salati ha detto...

Prego Manu, ne sono felice!

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