venerdì 11 giugno 2010

Guadagnarsi il pane


Questo è un lavoro strano. Non si è muratori, non si maneggiano mattoni e finito il lavoro non si avrà una casa per poter dire "quella l'ho costruita io".

Alle volte si fatica a trovare un collegamento diretto tra ciò che si fa e il prodotto finale. A occhi esterni potrebbe sembrare che passiamo il nostro tempo a giochicchiare col computer, a gironzolare per la casa con lo sguardo assente, il che sembra sicuramente meno produttivo di riordinare la casa o pulire i pavimenti.

Certe volte la gente te lo fa pesare: in particolare in Italia c'è molta diffidenza nei confronti dei creativi, considerati perditempo, gente che gioca invece di lavorare. Mi sono sempre chiesto perché.

Alle volte, quando arriva in edicola un albo con sopra una nostra storia, sembra che ci arrivi quasi "per magia" col nostro nome, come se produrre una storia fosse una cosa facilissima e di pochi minuti tanto quanto leggerla.

La strana sensazione è dovuta senz'altro anche al fatto che appena finita una storia non è che venga pubblicata immediatamente, quando è ancora "fresca", ma deve passare ovviamente per tanti processi come il disegno, l'editing, eccetera, e può passare molto tempo prima di vederla in edicola. Alle volte quando esce non ci ricordiamo più nemmeno noi di averla scritta, e sembra davvero di non aver fatto nessuna fatica.

E così alle volte nonostante tutta la fatica che si fa, nonostante i weekend assolati passati nel chiuso delle mura a ticchettare davanti al computer mentre gli altri se ne vanno in gita, alle volte sembra davvero di perdere tempo, e non fare nulla, mentre il resto della gente si rompe in ufficio o in fabbrica a lavorare. Che abbiano ragione a essere diffidenti?

Poi però, arriva il momento di affettare il pane. Io e la mia ragazza lo facciamo in casa perché mio fratello mi ha regalato una magnifica macchina del pane.

E mentre affetto quel pane, e lo tocco, ed è reale, penso: no, che cavolo. La farina, il sale, lo zucchero, il lievito, li ho comprati coi miei soldi. I quattro soldi che guadagno scrivendo. Questo pane l'ho guadagnato col sudore della mia fronte, lavorando come fanno tutti gli altri. E nonostante la fatica mentale, mi diverto pure.

E allora mentre assaggio quel fantastico pane fragrante e appena sfornato capisco: quella non è diffidenza.

E' invidia.

12 commenti:

Fausto ha detto...

No, dai, Joe! L'invidia no, su. Lascia che sia Berlusca a pensare che ci sia gente che lo invidia. Nessuno ci invidia, credimi. Non siamo rockstar, né candidati all'Oscar. E nemmeno scrittori da premio Strega (non dico Pulitzer). Nessuno talk show di prima serata ci inviterà mai per parlare della nostra ultima storia in cui Zio Paperone parte per l'ennesima isola deserta. Nessun film sarà presumibilmente tratto da una nostra storia (lieto di essere smentito, ma le probabilità mi sembrano risicate). Nessun pubblico ci tributerà applausi a scena parte. Non riempiremo mai un teatro da mille posti. A volte si fa fatica a mettere insieme cinquanta persone in una fumetteria. A parte quei venti o venticinque invasati, nessuno conosce il nostro nome. Veniamo pagati un tot a tavola - il che dovrebbe automaticamente ridimensionarci, non trovi?
Siamo indubbiamente felici del lavoro che facciamo, siamo e ci dobbiamo considerare dei privilegiati. Ma fermiamoci lì con gli auto-incensamenti. Già la parola "creativo" fa venire la pelle d'oca (ma non era già stata abolita fin dai tardi anni Ottanta?).
O, almeno, questa è la mia posizione. Io non voglio suscitare invidie - non me ne frega una ceppa - non credo proprio che qualcuno (a parte qualche balengo: ma chissenefrega del parere di un balengo) possa veramente invidiare quello che faccio né da un punto di vista "creativo" (o quello che è) né da un punto di vista più prosaicamente economico-finanziario. Quello che io faccio (e, adesso, parlo solo per me e non per categorie) mi serve per pagare bollette, affitti, per mandare mio figlio grande all'università e mio figlio piccolo al liceo. Per comprarmi il pane, in questo ti do ragione.
Il resto - la fama e la gloria che possono generare invidia - non ci compete. Qualcuno apprezza quello che facciamo, strappiamo un sorriso a un bambino e regaliamo un quarto d'ora di serenità a un adulto. Dopodiché, riprende la vita. Non è poco ma nemmeno molto. Accontentiamoci.
E se qualcuno non capisce o sminuisce o disprezza o disdegna o denigra, pazienza. Personalmente, ritengo il mio lavoro assai più concreto di quello di un broker di una banca d'affari o di uno stilista. Tutta gente che si crede dio in terra.
Un saluto.

Giorgio Salati ha detto...

Ciao Fausto!

No ma l'invidia di cui parlo non è l'aperta invidia per una rock star... è quella sottile invidia mascherata da diffidenza di chi fa un lavoro insoddisfacente e vede qualcuno che ha il coraggio di fare un lavoro con zero sicurezze ma che gli piace e gli dà tante soddisfazioni... ti assicuro che questa componente c'è perché ne ho avuto a che fare, ancora di più in ambito musicale... ci sono persone che ti trattano come perditempo perché loro invece passano il tempo a smarronarsi in ufficio, e se loro sono infelici dovresti esserlo anche tu perché non è giusto che lui sì e tu no.

Anonimo ha detto...

Forse più che di invidia si tratta di mancanza di comprensione e di empatia con il prossimo ^-^.

Signor Salati
colgo l'occasione per dirle che leggere i suoi post è sempre piacevole e rilassante e che sotto quell'aspetto un po' dark vibra l'anima di una persona gentile e mite...e per me la mitezza è una delle qualità più belle che un uomo possa vantare essendo, essa, coscienza della dimensione tragica della vita.
Cari saluti.

Fausto ha detto...

Mi pare che siano dei poveri di spirito, quindi non ci farei troppo caso.
Mi spiace dirtelo, perché sai che ti stimo e ti voglio bene, ma il tuo discorso mi pare vagamente "fuori centro" (diciamo sproporzionato) e pertanto non mi è piaciuto molto. Spero che non te le prenda per il parere che ho espresso.
Io trovo sinceramente improbabile che qualcuno possa invidiare quello che faccio (parlo per me, ovviamente). Forse potrà non capirlo - ho impiegato oltre vent'anni per far capire alla mia famiglia che non c'era nulla di strano se qualcuno mi pagava per le cose che scrivevo (con il tempo se ne sono dovuti convincere, dato che con il mio lavoro riuscivo a "crescere una famiglia). Ma di qui a invidiare, ce ne corre. Forse è che non capisco a chi ti riferisci quando parli di "gente".
Proviamo a ribaltare il discorso: quando tu parli di persone “infelici” che fanno “un lavoro insoddisfacente” o che “passano il tempo a smarronarsi in ufficio” non stai assumendo lo stesso atteggiamento di chi giudica con sufficienza e diffidenza il tuo lavoro?
A ciascuno il suo, come si dice.

Giorgio Salati ha detto...

Figurati Fausto, sai bene che accetto sempre critiche argomentate.

Magari hai ragione tu... magari il mio è solo un atteggiamento difensivo per cercare di bilanciare la malfidenza che a volte subisco in quanto scrittore e musicista.

Però che ci siano tante persone insoddisfatte del proprio lavoro è palese. E un paio me l'hanno confessato di essere un po' invidiose più che del mio lavoro, della mia/nostra scelta di vita: rischiare tanto ma fare qualcosa che ci piace. Indipendentemente dalla qualità del nostro lavoro, non si tratta di essere invidiosi di "quello che scriviamo", ma del fatto di vivere facendo un lavoro che ci piace, fosse anche fare l'imbianchino, se a uno piace fare l'imbianchino.

E' che appunto tanti trovano incredibile che si possa essere pagati per questi che in Italia vengono considerati poco più che "trastulli" di gente che non sa fare un vero mestiere. C'è tanta gente che se ne rallegra, sicuramente. C'è chi è contento per me, ma c'è anche chi si rode.

E mi stupiscono ancora di più coloro che fanno un lavoro "normale" e poi scrivono "per passione", e a volte disprezzano quelli come noi che lavorano su personaggi altrui, per realtà editoriali "commerciali", come se fossimo "mercenari", come se l'arte fosse "altro"... A me sembrano invece semplicemente scelte di vita diverse. C'è chi non vuole rischiare e fa un lavoro normale per poi fare l' "artista", e c'è chi come noi si considera un semplice artigiano che magari una volta ogni tanto riesce anche a fare un'opera d'arte, ma non ha la presunzione di essere un artista.

Il fatto poi è che spesso quando ci si trova davanti al computer a rimuginare una storia capita (almeno a me) di chiedersi "ma sto facendo davvero qualcosa di serio? non starò davvero perdendo tempo?", perché appunto i "frutti" del nostro lavoro non sono così evidenti ed "essenziali" al mondo rispetto ad altri. Poi appunto, affettare il pane fatto a casa mia mi fa cambiare idea. Quel pane l'ho guadagnato col mio lavoro, e allora al diavolo tutti i complessi di "inferiorità" verso coloro che in un certo senso si considerano più "adulti".

E sono d'accordissimo sul discorso di broker e stilisti.

Ultima cosa: so che il termine "creativo" può sembrare un po' datato. Però da una parte volevo identificare tutte le persone che fanno un lavoro che richiede creatività, ma non volevo usare "artista" perché per me è un termine troppo impegnativo, e non mi sento di considerarmi tale (qualche volta sì, dipende da ciò che faccio, ma non in senso assoluto).

Giorgio Salati ha detto...

Ringrazio l'amico anonimo che mi ha scritto quel commento, molto azzeccata la riflessione sulla dimensione tragica della vita!

Fausto ha detto...

Allora forse il problema non è la “gente” che non capisce, Joe. Forse il problema è che tu (come tutti) attraversi momenti in cui il tuo lavoro ti sembra “astratto” e sei assalito da senso di inadeguatezza o da (come tu stesso scrivi) complessi di inferiorità nei confronti di chi fa un lavoro apparentemente più concreto (“normale” è un aggettivo ambiguo).
Se così è - e mi permetto di dire che probabilmente è così, giacché è un sentimento che io stesso ho provato a lungo - la questione della presunta “invidia” parte e arriva da te stesso (o da noi stessi, se preferisci). Non è dalla presunta invidia altrui che dobbiamo difenderci, ma dal nostro atteggiamento auto-disfattista. E occorre fare attenzione, perché passare da un ingiustificato complesso di inferiorità a un ancora meno giustificato delirio di onnipotenza è un attimo.
Fare l’autore di fumetti è un lavoro normale, come molti altri lavori. Occorre essere preparati, documentarsi e aggiornarsi, oltre che emettere fatture e pagare le tasse. Io scrivo tutti i giorni, così come un altro va in ufficio o in fabbrica o in un negozio tutti i giorni. Io scrivo fumetti e un altro vende camicie. Cosa c’è di tanto bizzarro in quello che facciamo? Chi stabilisce che una camicia è più importante di un fumetto?
Io, poi, preferisco dire “autore di fumetti” e non, come dici tu, “scrittore”. Quello, secondo me, è tutto un altro mestiere, che risponde a logiche - anche economiche - completamente diverse. Io ho effettivamente pubblicato due libri per bambini, ma non mi sento di definirmi tale. Poi, magari, è che sono io che non lo so e tu sei veramente uno scrittore. In questo caso, mi scuso.
Be’, grazie per la chiacchierata. Torno a scrivere un episodio di DoubleDuck. Lunedì ho un appuntamento con il commercialista per sapere quante tasse devo pagare. Più normale di così…

Giorgio Salati ha detto...

Sì, sicuramente c'è anche forte quella componente che dici, di auto-commiserazione, però è più una componente "indotta" che auto-procurata, nel senso che l'ambiente sociale tende a farti sentire poco "produttivo" se fai un lavoro di fantasia. Cmq vabbe', direi che ci siamo intesi.

Deliri di onnipotenza per ora non li ho avuti, a parte quando mangio la peperonata!

Quella dello "scrittore" poi è un'altro mio dilemma... io di solito dico sempre "sceneggiatore", però volendo allargare un po' di più il raggio, per descrivere tutti coloro che vivono scrivendo, dallo sceneggiatore di fumetti, cartoni animati, film, autori tv, scrittori di libri e racconti, saggisti, autori di redazionali, eccetera, trovare un termine che li descriva è duro! Perché ad es. "autore" è un po' troppo generico, può intendere anche un disegnatore...

E il fatto del commercialista è altrettanto esplicativo: alle volte vai da quelli che sanno talmente poco di queste professioni che non sanno neanche come funziona, ad es. le norme sui diritti d'autore, idem quando vai in banca sembrano crederci poco che tu sia in grado di vivere con quel lavoro... sarà che per me i capelli lunghi peggiorano le cose!

Tito Faraci ha detto...

“Credo che uno debba fare il lavoro verso cui è più portato. E questo, malgrado tutto, è il lavoro che più mi piace di ogni altro al mondo. Mi piace perché amo scrivere, disegnare; perché amo sognare e raccontare i miei sogni. Perché voglio poter scegliere io i miei tempi di lavoro; perché mi permette una certa libertà di cui non posso fare a meno. Spero (ma so che è difficile e non ci conto), che prima o poi, continuando a impegnarmi, riuscirò a entrare nella rosa dei pochi autori pagatissimi, celebri e in grado di far sentire la propria voce. Per ora mi accontento dello stipendio di un impiegato di prima categoria… divertendomi molto di più”.

Come si diventa autore di fumetti, Alfredo Castelli, 1983

Giorgio Salati ha detto...

Ottima citazione, Tito! Grazie!

moise ha detto...

Grazie Joe :-)
Mi ci voleva! Davvero!
Abbracci Moise e Vivi

Giorgio Salati ha detto...

eheh son contento Moise!

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